mondonico

EMILIANO MONDONICO, L’ULTIMO MOSCHETTIERE

DAL ROMANZO AL PRATO VERDE
«Sui trentanove o quarant’anni, con l’occhio vivace e i capelli appena brizzolati, baffi e pizzetto; spavaldo, impetuoso e un po’ incosciente, un Don Chisciotte idealista più giovane e meno folle. Un guascone insomma»
(la descrizione di D’Artagnan fatta da Alexandre Dumas in “Vent’anni dopo”).

Io c’ero quando D’Artagnan lasciò le opere di Dumas e si presenta su un campo di calcio.
Di fioretto o di sciabola, arriva sui campi della serie B italiana e, coadiuvato dai 16/18 scudieri Planchet, sfida i Mazzarino e i Richelieu del mondo del calcio.
Non una mantella azzurra rifinita, piuttosto vestiti con i colori di una caramella di zucchero al luna park , quelle rotonde da leccare e con il bastoncino per mantenerle per capirci.
Piuttosto che il giglio reale uno sponsor da bottega sotto casa, Latte Soresina.
Questa è la Cremonese anni ’80, non la guardia reale di Versailles narrata da Dumas.
Lui, per me ragazzino, con quei baffetti e pizzetto, è D’Artagnan, anche se si fa chiamare Emiliano Mondonico.
Intelligente, arguto, indipendente, irridente e intrepido come solo i guasconi sanno esserlo anche se nascono a Rivolta d’Adda.


UNA STELLA COMETA
«Stelle che ora tacciono, ma daranno un senso al quel cielo/ Gli uomini non brillano se non sono stelle anche loro»
(Nei giardini che nessuno sa – Renato Zero).

Ed Emiliano una stella nel panorama calcistico lo è stato.
Piuttosto che una super nova sempre pronta ad abbagliare e a implodere allo stesso tempo, una stella cometa da seguire per ritrovare un bambino, quello che è in noi e che ci fa amare il calcio per il lavoro sul campo piuttosto che le polemiche in TV, per il ricordo delle ore passate per strada piuttosto che il tweet dopo partita, per il sacrificio anche a fronte di poche gioie piuttosto che le comode vittorie fatte di bilanci e conti in rosso.
Oppure una stella polare da seguire per non perdersi nei veleni di uno sport che da tempo stagna nella palude dell’ovvio e del superfluo.
E lo ha fatto sempre con quell’aria da guascone, mai banale, ma nemmeno troppo irriverente, uno
che sprizzava simpatia da quegli occhi furbi e intelligenti, la sagacia presente in un sorriso racchiuso tra il baffo e quel pizzetto da personaggio di Dumas.
Non più con cappa e spada, piuttosto con passione e lavoro, ha combattuto contro avversari sempre più grandi di lui, senza paura.
Sia che si trattasse di ottenere promozioni e salvezze, sia che l’intento fosse di incantare in Europa, con unica arma il fioretto del bel gioco, sia che fosse lottare con un terribile male, con unico scudo il suo sorriso e il suo coraggio.
Perché poi un Real Madrid in semifinale di Coppa Uefa e un tumore in corpo sono entrambe cose che fanno tremare le gambe, e, nel calcio come nella vita, se non accetti di giocarti comunque la partita l’hai già, di fatto, persa.
E non può essere diversamente cosi per uno come Emiliano D’Artagnan, sia che si debba affrontare le forze superiori in numero di un Mazzarino, sia che si debba affrontare Butragueno, Michel e Hagi con Annoni, Bruno, Policano e Scifo, sia che si debba lottare conro cellule malate e molecole impazzite.
Non importa quando lo scontro sia impari, conta quanto tu sia capace di sognare un finale diverso di una storia che sembra già scritta ma non in un romanzo.

COME D’ARTAGNAN
«Ho vissuto la mia carriera di giocatore nel pieno dell’immaturità, pensando che tutto fosse un divertimento e di non aver nessun obbligo, ma solo diritti, dando sempre la colpa agli altri. Questa è stata la mia grande forza quando sono diventato allenatore».

Una carriera di giocatore talentuoso limitata dal carattere da D’Artagnan 18enne narrato da Dumas in “I Tre moschettieri”: impetuoso, coraggioso ma anche immaturo.
Per ritrovarlo, vent’anni dopo proprio come Dumas nel seguito, ad allenare, sempre guascone, sempre irriverente, ma ora persona matura che dei suoi sbagli ha fatto tesoro .
Le promozioni, le salvezze, le retrocessioni, una Coppa Italia vinta e una Coppa Uefa persa in finale vissute sempre col sorriso sulle labbra, con lo spirito di chi non ha dimenticato da dove viene.
Il percorso da un paesello della Guascogna a Parigi di D’Artagnan e quello di Emiliano dalla trattoria dei suoi in un borgo sulle rive di un fiume a una finale ad Amsterdam sono simili.
Parlano di semplicità e di coraggio, di osterie e buon bicchieri di vino rosso, di sedie alzate per una rissa con le guardie cardinalizie oppure per una decisione arbitrale che reputi un ingiustizia.
Oppure sedie abbassate, dove suona seduta in un concerto gente come Brian Jones dei Rolling Stones.

LA SEDIA
«Mi sono fatto squalificare perché il sabato successivo avrebbero suonato i Rolling Stones a Milano e mica li potevo perdere. Ho incominciato a insultare l’arbitro finché non mi ha cacciato dal campo. Così sono potuto andare al concerto e che piacere vedere Brian Jones suonare seduto si una sedia. Era una cosa così diversa per noi abituati a Nilla Pizzi e Orietta Berti»

Già, le sedie, che sembrano essere nel destino di Emiliano e con le quali concluderemo questo viaggio.
È il 1967 e Emiliano è giovane e guascone e si comporta da tale anche se gioca, tra la serie C e la D, a calcio nella Cremonese ed è ad un passo a fare il grande salto in Serie A con il Torino, chiamato a sostituire, sul campo e nei cuori dei tifosi, un altro guascone del calcio, tutto classe e irriverenza, quel Gigi Meroni perito in un tragico incidente stradale.
Una squalifica, un concerto e Brian Jones che suona seduto sulla sedia, questo il primo Mondonico, quello che parte da Rivolta d’Adda bravo ma immaturo.
Di sicuro vent’anni dopo, proprio come il titolo del seguito del romanzo di Dumas, Emiliano non avrebbe perso per nessun concerto al mondo quella finale di Coppa Uefa ad Amsterdam, con lui allenatore di quel Torino dove non sfondò da calciatore salvo entrare nella leggenda granata come allenatore, come a Cremona, a Bergamo, a Como, a Firenze.
Però forse si ricorda di Brian Jones e di quella sedia.
E, dopo tre pali e un rigore negato, lui ne trova una, di sedia, a bordo campo.
Non ci si siede rassegnato, ma la alza al cielo esasperato piuttosto che guascone
«Quella sedia è il simbolo di chi tifa contro tutto e tutti. È il simbolo di chi non ci sta e reagisce con i mezzi che ha a disposizione. È un simbolo-Toro perché una sedia non è un fucile, è un’arma da osteria».
Già, proprio come D’Artagnan.
E come lui ci manchi, Emiliano, da quel giorno che la notizia della tua scomparsa ci raggiunse come quel proiettile che colpisce a morte il moschettiere nell’ultimo romanzo della trilogia di Dumas, “Il Visconte di Bragellonne”.
Non un romanzo di cappa e spada, il tuo, ma una vita di passione e lavoro dedicata ai tuoi Planchet che si chiamassero Vialli, Morfeo, Lentini, Bobo Vieri , Pippo Inzaghi o Christian Riganò, tra una lezione di calcio sul campo e una di vita in cascina tra un salame e un fiasco di vino rosso.
Oppure donata per allenare una comunità di tossicodipendenti e alcolisti, perché per te «il pallone è il mio primo amico e sicuramente il pallone sarà il mio ultimo amico».
E di sorrisi donati al calcio, a noi, sotto a quei baffetti irriverenti e saggi allo stesso tempo.
«Eri un passo avanti a tutti, avevi portato brio e leggerezza in un momento difficile e avevi capito quello di cui la squadra aveva bisogno per vincere. Era difficile non volerti bene grande Mondo. Ti ricordi il torello a tempo? ’Mister, gli ultimi due in mezzo pagano lo champagne’ e si beveva il sabato sera in ritiro» (Christian Riganò)

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