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ZIBI’ BONIEK,BELLO DI NOTTE. E DI GIORNO

ZIBI’ BONIEK, IL BELLO DI NOTTE. E DI GIORNO

«E poi vederti ridere e poi vederti correre ancora/ Dimentica, c’è chi dimentica distrattamente un fiore una domenica». (Nei giardini che nessuno sa – Renato Zero)

E’ troppo osare voli pindarici affermando che Zbigniew Boniek, il ragazzo dai capelli e baffi rossi che scorazzava nel rettangolo verdenegli anni’80, è colui che, forse, ha offuscato la leggenda di Kazimierz Deyna, asso polacco degli anni ’70?

Oppure basta ricordarlo con le parole dell’Avvocato Gianni Agnelli che lo definì, presentandolo a Henry Kissinger, «quello che gioca bene di notte», per essere capace di lasciare il segno sopratutto nelle partite in notturna nelle coppe europee?

Attaccante, centrocampista, mediano, persino libero con apprezzabili risultati nella sua fase finale con la Roma, Zibì era genio e sregolateza, capace di sembrare avulso dal gioco un attimo prima e torpedine imprendibile un secondo dopo.

Zibì gioca, vince e convince nel Widzew Lodz e nella nazionale polacca, prodotto di una società permeata nel comunismo, poco spazio per i sogni, pragmatismo nelle vene e nelle teste.

«Anche io, come i giocatori italiani, ho iniziato a giocare in strada. È lì che si formano, in tutto il mondo, i buoni giocatori e forse anche le buone persone. Noi in Polonia in strada dimostravamo subito quello che sapevamo fare meglio. Chi correva, chi picchiava, chi calciava con destrezza. In strada vige, da sempre, la legge del più forte. Ma con una eccezione: il proprietario del pallone. Io ero piccolo, gracile ma avevo una smagliante sfera di cuoio. L’avevo perché mio padre giocava in Serie A e anche questo accendeva su di me una luce particolare.»

Qule bambino gracile, dai capelli e lentiggini rosse, cresce, diventa veloce e bravo, tanto bravo che a nessuno importa più se sia il proprietario del pallone o semplicemente riesca a diventarlo correndogli dietro, impossessandosene finchè non lo vede depositarsi in rete.

Probabilmente nemmeno Zibì immagina che da lì a qualche anno, il 1980, la Polonia e la sua vita stanno svoltando, in uno strano incrocio di destini fatti di storia e di calcio.

E’ il settembre 1980 e in seguito agli scioperi nei cantieri navali di Danzica e guidato inizialmente da Lech Walesa nasce Solidarnosc.

Dapprima organizzazione sotterranea, ma presto si impone come movimento di massa e luogo fondamentale di incontro delle opposizioni di matrice cattolica e anticomunista al governo centrale.

Poco meno di due mesi dopo, siamo al 5 novembre 1980, il Widzew di Boniek affronta la Juventus in Coppa Uefa, eliminandola ai rigori.

Proprio Boniek realizza il tiro decisivo contro la squadra bianconera, alla quale approda nel 1982 dopo i mondiali in Spagna giocati da protagonista con una Polonia che arriverà 3°, battendo la Francia di Michel Platini, suo futuro compagno bianconero.

Il suo unico cruccio non aver giocato la semifinale contro l’ Italia. «L’Italia vinse quel Mondiale [del 1982] perché fece fuori Boniek… Nessuno mi toglie dalla testa che l’arbitro Valentine con l’Urss mi ammonì apposta per farmi saltare la semifinale con l’Italia che politicamente contava molto di più della Polonia… Avremmo perso lo stesso? Sarebbe bello rigiocarla quella partita, ma con Boniek in campo e Paolo Rossi squalificato, vediamo come finisce…»

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Boniek però non è solo un formidabile calciatore, è molto di piu’.

Zibì è un figlio naturale di quella Polonia conquistata, occupata, divisa da secoli, da mongoli, ottomani, austriaci e russi.

Gente che la libertà l’ha sempre inseguita, ora aferrandola, ora perdendola, con la dignità di chi non abbassa lo sguardo.

E il ragazzo di Bydgoszcz, dai capelli e baffetti rossi, gli occhi sornioni di chi ha capito tutto del mondo, la sua libertà, in campo e fuori, la vuole, la difende, lotta per lei.

Intelligente, colto (ha il diploma di insegnante di educazione fisica), estroverso ma anche anarchico tatticamente, discontinuo nell’arco della stessa partita , è il giocatore polacco che ha vinto di più.

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E forse è quello meno adatto a vestire il bianconero della Juventus, una società che sta agli antipodi del suo modo di essere, e con la quale Zibì vince tutto, sempre da protagonista.

E’ lui a segnare il gol decisivo contro il Porto che regala la Coppa delle Coppe alla Juventus, lui che segna una doppietta al Liverpool nella Supercoppa Europea.

E’ sempre lui che si procura il rigore, trasformato da Platini, che consegna la Coppa dei Campioni alla Juventus nella tragica serata dell’Heysel.

E’ sempre lui, all’indomani della tragica partita, che annuncia di voler devolvere il premio partita (circa 100 milioni di lire lordi) alle famiglie delle vittime.

Il tutto fra una telefonata alle 6 del mattino dell’Avvocato, un anticonformismo di pensiero sempre esternato, senza peli sulla lingua.

Termina la sua carriera calcistica alla Roma, sfiorando uno scudetto dopo una rincorsa incredibile proprio a danni della Juventus e interrotta con la partita con il Lecce (che poi Zibì allenerà nella sua breve esperienza da allenatore).

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«Il palmarès dei bianconeri [la Juventus] sarà forse ricco di trofei, ma in quanto a baldoria, lì sono veramente pessimi! Bisognava giocare, vincere e basta! Ogni tanto avevo l’impressione di andare al lavoro in fabbrica.»

Schietto, sincero e diretto Zibì, come quando correva verso la porta avversaria, veloce e imprendibile, terrore dei portieri avversari, idolo delle folle.

Bello sempre, di giorno e di notte.

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