melassa

Melassa

Quarant’ anni.
Tanto sono mancato da Boston.
Ero andato via bambino speranzoso, vi sono ritornato da adulto disilluso.
È sera.
Esco dal Camford Hotel attraverso le sue porte girevoli automatiche, il portiere in livrea rosso pompeiano mi saluta con la consueta cortesia.
Un sorriso non si nega a nessuno, soprattutto se dai una mancia per chiamarti un taxi oppure per far salire una battona in camera.
Guardo il cielo.
Nuvole di colore più chiaro, quasi giallastro, indicanti un limite di condensazione molto più basso.
Non è pioggia, sarà neve.

La ricordo la neve a Boston.
Solo che allora il cielo e le nuvole che la preannunciavano erano scure.
Il giallo di oggi è dovuto alle particelle di smog di una delle città più inquinate al mondo.

Particelle invisibili, leggere a sufficienza per salire in alto, molto in alto, anche se più spesse del vapore acqueo, e che riflettono il micidiale cocktail di effluvi di ozono, polveri sottili, biossido di azoto, biossido di zolfo, monossido di carbonio che ci sovrasta.
Forse sarà questo miscuglio di veleni a farmi sentire questo strano odore dolciastro.

Sembra pervadere l’aria, nonostante le basse temperature.
Siamo al 15 di gennaio e fa freddo, come sempre in questo periodo, quindi alzo il bavero del mio loden e mi incammino.
Non ho una direzione precisa, un luogo prestabilito.
Magari mi basta trovare un irish pub qualsiasi dove assaporare una vera birra, una Guinness alla spina e non quelle, melense come sciroppi, in bottiglia.

A Boston, nei sobborghi e nei quartieri, le temperature sono sempre più basse, rispetto alla costa.
Quasi a rappresentare il netto divario del campionario umano che si divide tra ristoranti di classe di Back Bay e bidoni della immondizia della zona portuale del North End e di tanti altri sobborghi.
Boston è una città per ricchi concimata da poveri.
Gente avvizzita, emaciata, abbruttita dall’uso di bevande torci budella, che si contende un cartone come coperta oppure un posto vicino a un fuoco come casa.

Si dice che a Boston non si possano distinguere i topi dai senza tetto.
Errato.
I topi, almeno loro, mangiano ogni giorno, fosse anche un senza tetto morto assiderato in notti fredde e nevose come questa che sta arrivando.
E, se anche fosse che qualche topo finisce per essere pietanza per un poveraccio, non è quest’uomo per strada comunque ad essere, a Boston, in cima alla catena alimentare.

Camminare mi aiuta a non sentire il freddo che vuole penetrarmi nelle ossa.
Al di là della strada che percorro vedo qualcosa che potrebbe diventare un mio obiettivo, il posto che fa al caso mio.
Il nome, Killraney pub, non mi dice niente, tranne che forse ci troverò quella birra che cerco.
Devo solo cercare di attraversare.

Alle spalle un vicolo buio, uno dei tanti di Boston.
Occhi che mi osservano al di sotto di un berretto di lana e al di sopra di qualcosa frammisto tra barba e capelli grigi.
Il resto è indistinguibile, vuoi per il nero del buio, vuoi per il nero della sporcizia fissatosi su quel volto come una seconda pelle.
Sta sdraiato in terra, addossato alla parete del vicolo, avvolto in un pastrano dal quale fuoriescono solo le mani e le parti inferiori delle gambe.
Sento la voce di quegli occhi, anche se non giurerei di aver visto labbra muoversi.

«Un Washignton quarter per i vostri pensieri, un Kennedy half per farli miei, una Susie per ascoltare una storia»

Non ho voglia di niente se non di quella pinta di birra.
Prendo il pezzo da un dollaro, la “Susie” come l’ha chiamata lui, e lo getto nel barattolo al suo fianco.
Da rumore che fa , cadendo all’interno, penso che non abbia molta compagnia del suo stesso valore.
Ritorno a fissarmi sul mio obiettivo, il pub.
Gli occhi parlano nuovamente.

« La storia, signore, avete acquistato il diritto di ascoltarla»
«Non ora, vecchio»

Sento un tintinnio ai miei piedi.
Abbasso lo sguardo e vedo il volto austero di Susan B. Anthony, la prima donna raffigurata su una moneta statunitense, paladina del diritto al voto del sesso debole, guardarmi come a volermi rimproverare.

«Niente storia, niente Susie. Non sono qui ad elemosinare, devo guadagnarmelo, il suo dollaro»

Raccolgo la moneta, mi volto a guardare il barbone, stupito da quell’atto di dignitosa superbia.
Potrei intascare di nuovo il mio dollaro, girare i tacchi e andarmene verso il caldo del pub e la mia meritatissima birra.
C’è , però, qualcosa in quell’uomo che mi confonde, mi incuriosisce, mi trattiene.
Mi avvicino a lui, rimetto il dollaro nel barattolo.

«Avanti, vecchio, narra la tua storia. Vedi di fare presto, però! Ho una birra che mi aspetta e una nevicata da evitare»

Il vecchio allunga una mano e, dal profondo del buio del vicolo tira fuori una cassetta di plastica, di quelle che si usano per infilarvi le bottiglie.

«Si accomodi sulla mia poltrona, e mi perdoni per il mio arredamento spartano, ma sono in fase di restyling..capirà!»

Come se fosse la cosa più naturale del mondo mi accomodo su quella improvvisata “poltrona”.
Sarebbe da ridere se non fosse anche un segno di pazzia quanto sto facendo.
Io, ricco imprenditore italo americano seduto in un vicolo con un dannato senza tetto in una sera fredda.
Al di là di quel mondo, di quel vicolo, sembrano chiamarmi, come sirene allettanti, le luci, il caldo, i divertimenti della Boston che mi sono conquistato con anni di sacrificio.
Il mio mondo.

Ora, però, io sono lì, al fianco del barbone e nel buio della notte il mio loden non è tanto diverso dal suo pastrano.
Se c’è una logica nel cervello umano, beh, questa sera si è andata a farsi fottere nel mio!
Mi accomodo al meglio, sulla scomoda e improvvisata suppellettile.

«Avanti vecchio, racconta! E fa in modo che la storia valga un dollaro, il freddo e la pinta di birra che mi aspetta. Innanzitutto, hai un nome?»

«Ha importanza? È la storia che è importante. Io potrei chiamarmi Adam, George, Isaac o anche come voi, non cambierebbe nulla. Dai vostri abiti eleganti capisco che siete benestante. D’altronde, pochi possono permettersi di buttare via un dollaro in questi magri tempi, almeno che non siano alla stregua di forfora fastidiosa nella tasca. A proposito, mica in quelle tasche avete pure una cicca? Sapete, con questo freddo..»

Qualsiasi persona di buon senso si alzerebbe e se ne andrebbe via.
Anzi no, qualsiasi persona di buon senso non sarebbe seduto lì.
Evidentemente, io non lo devo essere e, dalla tasca interna del loden, tiro fuori sigarette e accendino.
Una per me, una per il vecchio.
Volute di fumo si alzano in contrasto con l’aria gelida che scende.

«Vedete, io non sono stato sempre questo, cioè, voglio dire, un miserabile barbone. Lavoravo, una moglie che mi aspettava a casa, dei figli. Ho perso tutto, in pochi attimi. E sapete per cosa? Della dannatissima, schifosa melassa! Sapete a cosa serve la melassa, signor..?»

«Jake Rametta. Certo che so a cosa serve la melassa! Dalla sua distillazione si produce rum e persino la vodka. Era usata anche per fabbricare munizioni»

Il vecchio, o per lo meno i suoi occhi, mi guardano soddisfatti.

« Esatto! E lei forse non sa che uno dei Padri Fondatori degli Stati Uniti d’America, John Adams, ebbe a dire “Non so perché dovremmo arrossire confessando che la melassa fu un ingrediente essenziale nell’Indipendenza Americana. Molti grandi eventi sono nati da cause ben più piccole”?

Sta incominciando a nevicare, piccoli e radi fiocchi si fermano sul mio loden, ma subito si tramutano in acqua.
Qualcosa mi dice che dovrei alzarmi di lì e dirigermi al pub.
Qualcosa di ancora più forte mi trattiene lì, seduto su una cassetta di plastica, in compagnia di un barbone.

« Vecchio, non sono qui per ascoltare gli aforismi sulla melassa!»
« Ha ragione! Veniamo al punto. Lo sente questo odore dolciastro nell’aria?»

Faccio un cenno d’assenso col capo.
Il vecchio continua.

Il vecchio barbone interrompe un momento la narrazione, per poi continuare.

« Il mescolamento delle due melasse produsse fermentazione, gas. Inutile furono gli avvertimenti di un dirigente della struttura, un certo Isaac Gonzalez, che sentiva da giorni strani scricchiolii e rumori. Il 15 gennaio 1919, stesso giorno di oggi, ma quasi cent’anni fa, alle 12.41 il serbatoio collassò. Le pareti non ressero la pressione della melassa e dei gas creatisi dalla fermentazione, le giunture tra i pannelli di acciaio saltarono e 8,5 milioni di litri di liquido viscoso fuoriuscirono con un boato in tutte le direzioni, creando un’ondata alta più di sette metri, larga cinquanta e che viaggiava a cinquanta chilometri l’ora»

Da piccolo avevo sentito narrare di quella storia, ma l’avevo sempre considerata una leggenda metropolitana, tanto sembrava assurda: un maremoto di melassa!
I fiocchi di neve intanto incominciano a essere più consistenti, ma ora mi sembra tutto così affascinante!
Voglio ascoltare la fine della storia.
Il mio anfitrione continua.

«La marea di melassa spazzò tutto ciò che incontrò sulla sua strada, per centinaia di metri dell’affollata Commercial Street, la via più importante del North End. Travolse case, capannoni, automobili. Una stazione dei pompieri venne sradicata dalle fondamenta e quasi gettata nell’acqua. Alcuni bambini che stavano raccogliendo legname da ardere ai piedi della struttura furono sommersi. Vi furono più di 21 morti e 150 feriti. Il cadavere di un italiano venne ritrovato solo dieci anni dopo. Un ora dopo, con le temperature fredde, la melassa incominciò a seccarsi, racchiudendo, come un macabro feretro, corpi di persone e animali. Un odore dolciastro, come quello che lei avverte ora, si diffuse per l’aria. Ci vollero 6 mesi per ripulire tutto. Mia moglie e i miei due bambini furono tra le vittime della vicina stazione di Atlantic Avenue»

L’ho ascoltato con attenzione, ma ora sono sicuro che fra i due squinternati sotto la neve, il maggior matto è il mio barbone!
Praticamente stava sostenendo di avere più di cent’anni!
Incomincio a ridere, sinceramente divertito dalla sua follia nel narrare e della mia nell’ascoltarlo, dandogli credito.

« È così saresti un sopravvissuto del disastro del 1919! Cribbio vecchio, sei hai in melassa qualcosa, è il tuo cervello! E stasera hai trovato un idiota come me! Bravo, ti sei meritato il dollaro!»

Il vecchio barbone, per nulla offeso dalla mia ilarità, si alza in piedi.

« Sono quasi cent’anni che, di questo giornata, racconto questa storia. Vi avverto, come avvertii, allora, inascoltato. Se mi avessero ascoltato allora, quel disastro si sarebbe evitato.  La mia famiglia non sarebbe stata distrutta. I miei sensi di colpa non mi avrebbero annegato in quei liquori che quella melassa produceva, riducendomi a un inutile vagabondo di strada»
« Cavolo, vecchio, ma chi credi di essere, allora?»

Il vecchio mi guarda, lui in piedi, io seduto sulla cassetta e con le spalle al muro.
La neve cade sempre più copiosa.

« Io sono quel che so di essere: Isaac Gonzalez, il dirigente della struttura che venne inascoltato allora, e deriso da te oggi!»

Oramai rido a crepapelle, mentre la neve mi ricopre sempre più copiosa, ma non mi importa di lei, del pub di fronte, della pinta di birra.
Con le lacrime agli occhi vedo dissolversi il vecchio barbone, scomparso, come inghiottito, fra la nevicata sempre piu’ fitta.
Dovrei alzarmi ma sono come inchiodato col culo sulla cassetta e le spalle al muro.
E rido, rido, rido.

Il mattino seguente la volante della polizia, avvisata da qualche passante, arriva vicino al vico prospiciente al Killraney pub.
Discendono due poliziotti e si avvicinano alla figura coperta dalla neve.
È seduta su una cassetta di plastica, con la schiena addossata al muro.
Ci vuol poco a capire che è morto assiderato.

« Uno dei soliti barboni che bazzicano questi marciapiedi. Povero diavolo!» prorompe uno dei due agenti.
L’altro guarda dubbioso.

« Non direi, guarda come è vestito. Troppo elegante»
« Allora sarà stata sorpreso dalla nevicata ubriaco fradicio. Magari si sarà sbronzato al pub laggiù. Guarda tu se ha documenti, mentre io avviso l’obitorio che si attivi per prelevarlo»

L’altro poliziotto scosta della neve dal loden, delicatamente.
Trova nella tasca interna i documenti del poveraccio.
Legge sulla patente il nome del malcapitato: Jake Rametta.
Sta per comunicarlo al suo collega, intento a chiamare la centrale, quando la sua attenzione viene distolta dal pugno della mano destra del morto.

È serrato, come a voler nascondere qualcosa.
Con non poca fatica, il poliziotto riesce ad aprire le dita intirizzite dal freddo e dal rigor mortis.
Dalla mano cade a terra una moneta.
È da un dollaro, è una “Susie”.
Il poliziotto la riconosce dalla severa faccia di donna rappresentata in effige.

Gli vengono in mente strane storie di apparizioni di fantasmi, disgrazie che accadono quasi sempre in quella giornata.
Sono legati ad avvenimenti nel passato, qualcosa riguardante un inondazione di melassa.
Un brivido di freddo gli percorre la schiena.
Leggende metropolitane, dice a se stesso.

Guarda il cielo, nuvole gialle.
Non nevica più, ma lo smog è sempre presente.
Quello, non la melassa, li ucciderà di sicuro.

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