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EL SALVADOR, STORIA DI UNA CENERENTOLA AI MONDIALI

SOGNI E DESIDERI

«I sogni son desideri di felicità/ nel sonno non hai pensieri/ ti esprimi con sincerità/ se hai fede chissà che un giorno/ la sorte non ti arriderà/ tu sogna e spera fermamente/ dimentica il presente e il sogno realtà diverrà» ( I sogni son desiderio- da Cenerentola di Walt Disney)

Le storie dello sport si intrecciano spesso con la storia del mondo, a volte affiancandole, a volte dipingendo percorsi diversi.

Il calcio, nella sua forma di competizioni internazionali per nazionali, è equiparabile, per sentimenti mossi e emozioni regalate, allo spirito che, dall’antica Grecia ad oggi tramite le Olimpiadi, ha unito popoli e nazioni sotto il vessillo dello sport, superando barriere ideologiche, religiose e momenti di oscurantismo storico e tragedie per alcuni paesi.

E’ come se queste manifestazioni riescano, superando il momento storico, a fornire un barlume di luce in una eclissi sociale e morale, un alito di speranza in una tormenta di oppressione, una momento di gioia in periodi di lutti e guerre.

Ed è logico capire cosa rappresentino i mondiali di calcio, ancor più che per un grande paese come l’Argentina del 1978 sotto la dittatura sanguinaria di Videla, per altre nazioni, forse con meno appeal internazionale politico e calcistico, ma identico dolore sociale.

E’ così per Haiti nel 1974 , che partecipa al mondiale teutonico in un periodo storico che vede passare l’isola caraibica dalla dittatura di “ Papà Doc” Francois Duvalier e i suoi “Tonton Macoutes” (“gli uomini spettro”) a quella non meno efferata del figlio Jean Claude Duvalier, soprannominato “Baby Doc”.

Oppure, nello stesso anno e stessa manifestazione, per lo Zaire (oggi Repubblica Democratica del Congo) dove imperversava la feroce dittatura di Mobutu Sese Seko, il maresciallo-presidente esecutore di efferati crimini, al potere dello stato africano per oltre 30 anni.

Sarà così per l’Iran che partecipa, nel 1978 in Argentina, in piena Rivoluzione Iraniana, quella che vedrà poi nel 1979 lo scià Reza Pahlavi deposto e l’ascesa al potere dell’ Ayatollah Khomeyni.

E’ così in fin dei conti per la stessa Argentina, organizzatrice dei mondiali del 1978, che solleva una Coppa del Mondo al Monumental di Buenos Aires mentre a poche centinaia di metri vengono torturati i prigionieri politici e le madri piangono le sorti di figli che sono scomparsi nel nulla.

Non è diversamente, nel 1982, per il piccolo paese centro americano de El Salvador, che partecipa ai mondiali in Spagna all’inizio di un periodo, dal 1980 al 1992, dove la nazione viene dilaniata da una guerra civile che porterà ad oltre 100.000 morti.

I mondiali per questi paesi, e altri esempi se ne potrebbero aggiungere, sono piccole oasi di felicità per popoli stremati, momenti di apparente normalità in tempi di ordinaria follia.

Insomma, come recita la canzone, «i sogni son desideri di felicità/ tu sogna e spera fermamente/ dimentica il presente e il sogno realtà diverrà».

LA CENERENTOLA ALLA FESTA NON ATTESA

Così, siccome gli Dei del calcio sembrano non interessarsi della cialtroneria umana, e decidono spesso di ridisegnare la storia a loro piacimento, ecco che può capitare che una piccola nazione come El Salvador si trova ad affrontare, in una partita da dentro o fuori, il ben più temibile Messico di un allora giovane, ma già talento in forza all’Atletico Madrid, Hugo Sanchez.

Solo che ne El Salvador gioca un giocatore a tutti sconosciuto, ma che ben potrà essere poi inserito nella storia dei bravi e dannati del calcio mondiale, quel Jorge “Magico” Gonzalez, detto El mago, del quale parlo a parte.

Mancano dieci minuti alla fine e allo stadio di Tegugicalpa, in Messico, gli Dei, servendosi di un Mago, dipingono l’impensabile.

Jorge “Magico”Gonzalez ruba palla nella sua metà campo, salta un avversario, resiste all’arrivo di un secondo, s’invola verso l’area messicana dove entra dopo averne saltati un altro paio, sferra un tiro che il portiere messicano ribatte ma non trattiene, con lo sconosciuto Hernandez che ribatte in rete e regala il sogno mondiale alla piccola nazione centro americana.

Il centrocampista del Salvador Miguel Diaz Arvelao racconterà di come come il Messico sottovalutò ampiamente la sua squadra, ritenendola una formazione di poco conto.

Per i messicani fu un colpo tremendo al punto tale che, nella follia tutta umana,a causa della sconfitta, alcuni tifosi messicani giunsero addirittura al suicidio!

E che El Salvador fosse considerato poco più che alla stregua di una Cenerentola non invitata alla festa, lo dimostra il fatto che gli organizzatori del mondiale iberico sono talmente sicuri della qualificazione del paese di Quetzalcoatl e dei tuffi dalla scogliera di La Quebrada di Acapulco, che hanno già organizzato l’autobus con i colori nazionali personalizzati del Messico destinato al trasporto dall’aeroporto alla sede del ritiro.

Il Messico, in quel girone all’italiana a 6, non ne vince più, a El Salvador basta non perdere più.

Un intero paese, El Salvador naturalmente, è in festa.

La gente dimentica la guerra civile e i morti e elegge come suoi nuovi eroi nazionali la stella “Magico” Gonzalez, il mago che rende possibile i sogni, il suo personale “Che “ nel portierino appena diciottenne Luis Ricardo Guevara Mora, oppure quel Quinteros dalla capigliatura alla Pam Grier in Coffy.

Comunque sia in quel manipolo di ragazzini e meno giovani dalla faccia da indio e in casacche blu come il cielo sopra le foreste del paese.

Che giocavano forse anche per quell’Oscar Romero, arcivescovo di San Salvador, uno di quelli che denunciava pubblicamente il dilagante terrore di Stato, e che un anno prima, a novembre del 1980, era stato assassinato dai sicari del regime mentre diceva messa.

E non è retorica questa, perché il difensore Francisco Jovel ricorderà bene quei tempi dove «Se qualcuno di noi arrivava in ritardo agli allenamenti, era poiché aveva dovuto assistere un ferito abbandonato lungo la strada» .Oppure il centrocampista Alfaro spiegherà come gli scontri cessassero non appena loro scendevano in campo, e per tale motivo, vincendo, sentivano di poter fare un autentico regalo al popolo in un momento così difficile.

LA ZUCCA CHE NON DIVENTERA’ MAI CALESSE

E il popolo gli è riconoscente.

Il paese è poverissimo, i giocatori sono poco più che dei dilettanti rispetto al resto del mondo.

Così la nazione si auto tassa e permette di far partire i propri eroi alla volta della Spagna.

Per economizzare si sceglie un volo a tappe che li fa arrivare nella penisola iberica solo 72 ore prima della loro partita inaugurale.

La Federcalcio locale riduce da ventidue a venti il numero di calciatori, infilandoci però qualche amico e qualche amante dei dirigenti in più.

Ad accoglierli un bus dipinto con i colori del Messico, bianco-rosso-verde, perché dopotutto Cenerentola non era minimamente attesa!

Brutto segno, quei colori, e lo capiranno a breve il perchè i nostri eori.

Mancano i palloni per allenarsi, gli verranno prestati dagli ungheresi.

La divisa è una sola, l’albergo è di infimo grado e vicino a un circolo di tiro al bersaglio, così che ogni mattina a quei ragazzi , che sembrano più turisti squattrinati che calciatori a un Mondiale di calcio, la sveglia è data da colpi di fucile che fa loro tanto ricordare l’orrore che hanno lasciato a casa.

Un orrore che si ferma, così come si fermavano nel 1978 le torture all’Esma, l’officina meccanica che distava appena seicento metri dallo stadio Monumental di Buenos Aires, quando El Salvador scende in campo per la sua prima partita a quel Mondiale ( non la prima assoluta, perché El Salvador ha già partecipato a quelli messicani del 1970-già, il Messico, per i soliti corsi e ricorsi del calcio), il 15 giugno del 1982.

Siamo a Elche, l’avversario è quella Ungheria di Nylasi, Kiss e Fazekas, già troppa roba per i nostri simpatici eroi che si sono infilati in una festa senza invito.

L’avversario ha quei stessi colori dell’autobus, bianco-rosso e verde, gli stessi colori del Messico.

Ma non è il Messico o, quanto meno, la favola di Cenerentola, per El Salvador, termina qui.

Il verdetto è impietoso: sono 10 goal subiti, la sconfitta, ad oggi, dal risultato più eclatante.

Gli ungheresi, così tanto generosi nel prestare quei palloni per allenarsi, si dimostrano impietosi in campo.

Così viene da sorridere quando si vede l’esultanza di un certo Luis Zapata, detto pomposamente “El Pelè” in patria, esultare al gol, il primo di El Salvador a un Mondiale, che fissa il risultato sul 1-5 in favore dei magiari.

«Mi misi a correre e urlare, ero fuori di me dalla gioia perché quel gol era importantissimo per tutti i salvadoregni. Alcuni compagni mi vennero incontro dicendomi di stare zitto, di stare calmo per non far sì che gli ungheresi se la prendessero. Ma ormai era troppo tardi».

Già, e lo capirà bene lo stesso Zapata quando nei venti minuti successivi gli ungheresi infilano altre cinque volte la porta del portiere bambino Mora.

Ma come, avranno pensato Nylasi e compagni, ti prestiamo i palloni, facciamo una tranquilla melina sul 5-0 e te per un golletto urli e corri come un pazzo, manco fossi Tardelli quasi un mese dopo, quasi a volerci prendere per il culo?

Nel disastro generale vengono fuori le storie più assurde come quella del portiere di riserva che si rifiuta di sostituire il ragazzino Mora che però non vuole uscire.

Per la cronaca, quella maledetta partita tra El Salvador e Ungheria verrà rigiocata dagli stessi attori, oramai vecchie glorie, in campo ridotto, pancette aumentate e capelli bianchi, davanti a uno stadio gremito e un pubblico festante, nel 2007.

Finirà 2-2, Zapata segnerà altri due gol, sorriderà felice come allora.

Le partite con il Belgio (0-1) e l’Argentina del Pibe de Oro Maradona (0-2) servono solo in parte a cancellare l’onta di quella sconfitta.

Tre sconfitte, 13 goal subiti, uno solo fatto, zero punti come nel 1970 e il poco invidiabile record di aver sul groppone la sconfitta più sonora subita a un mondiale contrapposta al portiere più giovane della storia degli stessi, questa l’avventura di Cenerentola che è partita in una zucca che non si è mai trasformata calesse.

E la scarpetta non l’ha persa semplicemente perché forse non l’ha mai posseduta, come quelle divise da calcio mai arrivate dall’Adidas, e nessun principe, come quello del Kuwait allo stesso mondiale, a corrergli dietro.

Anzi, ritorna a casa e trova la matrigna più incavolata che mai.

UN MONDO SENZA EROI.

La matrigna in questione è quello stesso popolo che li aveva eletti a eroi, che si era tassato per mandarli in Spagna, che in quei venti calciatori vedeva un riscatto sociale ancora lontano a divenire, una speranza flebile che la storia si può e deve riscrivere.

Che ne sanno, in un paese ammantato da anni nella violenza, della vergogna provata dai giocatori dopo quella maledetta giornata del 15 giugno 1982, di quei ragazzi che, scesi negli spogliatoi, dissimulavano le loro lacrime sotto il getto di una doccia, che maledivano ognuno di quei novanta minuti, rei di aver spazzato, senza pietà, quella gioia improvvisa, quel sogno diventato prima desiderio, poi realizzato in un percorso lungo un anno di gare e di cuori gettati oltre gli ostacoli.

E che non ne sanno niente, di lacrime e vergogna, lo fanno capire ai nostri sventurati eroi già all’aeroporto dove, al ritorno, verranno loro rubati i bagagli.

Un clima ostile li accompagna, sono additati a simbolo della vergogna nazionale, qualcuno li vorrebbe addirittura impiccare, alcuni di questi ragazzi dalla faccia di indio e dai capelli alla Pam Grier devono lasciare il calcio perché diventati dei “paria” del pallone.

Altri come il giovanissimo portiere Mora, il “vero” colpevole secondo alcuni, addirittura vede restituirsi i dieci goal subiti al mondiale in 22 proiettili di mitra esplosi contro la sua auto.

Altre volte dovrà parare calci e pugni.

«Dopo la qualificazione i salvadoregni volevano farmi un monumento, dopo i Mondiali invece volevano costruirmi una tomba»

Fu così che Mora e compagni, coloro che giocavano per dare una gioia al loro popolo, capirono che gli eroi durano il tempo di una vittoria, ma non sopravvivono a una sconfitta.

Nemmeno nelle favole.

«Signor Tentenna non è motivo di vergogna/ il non saper centrare alcun bersaglio»
(Signor Tentenna – Carmen Consoli)