FB_IMG_1488985017285

VITO CHIMENTI, UNA VITA TRA BICICLETTA E GOAL

FACCE DA CALCIATORI

«Ci vuole un fisico bestiale/ Per stare nel mondo dei grandi/ E poi trovarsi a certe cene/ Con tipi furbi ed arroganti» (Ci vuole un fisico bestiale-Luca Carboni)

Certo che oggi, a sfogliare un album della Panini, i calciatori sembrano tanti modelli, di quelli messi in un catalogo per l’addio al celibato della futura sposa, o per festeggiare una Festa della Donna in maniera un po’ più eversiva.

Ciuffi impomatati e tagli di capelli tra i più variegati manco fosse un depliant da barbiere, tanto che i nostri figli si presentano dal loro personale Edward mani di forbice con la figurina del calciatore in mano.

Tutti belli e lindi, fisico asciutto, facce da “Denim per l’uomo che non deve chiedere mai”, oppure barbe e baffi artistici, palestra che trasuda anche solo a vedere il collo.

Permettetemi una mia personale vis polemica.

Se bastasse questo, se cotanta “fichezza” dall’estetista (anche durante la settimana, perché da una domenica all’altra ti accorgi del taglio nuovo oppure del tatuaggio inserito nell’ultimo lembo di pelle rimasto libero) corrispondesse altrettanta bravura sul terreno di calcio, probabilmente vinceremmo un Mondiale all’anno, invece di guardarli da casa.

Eppure, sembrerà strano, non è sempre stato così.

C’era un tempo che nel calcio, in campo o sull’album di figurine, i calciatori avevano le facce di tutto tranne che da calciatori, rapportati ad oggi.

Oppure è semplicemente vero il contrario, quelle erano facce da calciatori, facce di chi faceva solo il mestiere più bello del mondo ma avrebbe potuto essere confuso con un suo tifoso.

Baffoni alla Logozzo che te lo faceva sembrare un quarantenne ma di anni ne aveva 22; capelli scarmigliati alla Zigoni come Gene Wilder in Frankenstein Junior; Fanna con le sue incipienti calvizie a vent’anni; Bobby-gol Bettega con i capelli grigi da giovane; il defunto Ninì Udovicich che sembrava tuo zio oppure l’impiegato di banca (quello che poi farà a fine carriera davvero) sotto casa; Di Somma che ti faceva paura già sull’album di figurine, figurarsi quando ti aspettava fuori dagli spogliatoi del Partenio per darti il “benvenuto” raccontato da giocatori più famosi e scafati.

Poi c’era anche il belloccio di turno, naturalmente, alias quell’Antonio Cabrini definito, appunto il “Bell’Antonio” o persino “fidanzato d’Italia”.

E poi c’era lui, Vito Chimenti, quello che del fisico bestiale cantato da Luca Carboni era l’antitesi, quello che messo a confronto con il fisico di un Cristiano Ronaldo, ti chiedi cosa c’entra col calcio.

Basso (170 cm appena), tozzo, con un evidente tendenza alla pinguedine rivelata anche se le magliette sono tutt’altro che elasticizzate all’epoca, un faccione bello pieno pieno da operaio della Alfasud, calvizie accentuata e baffoni da pirata.

Eppure, sembra strano, efficace quanto spettacolare, capace di regalare momenti di magia come il portoghese.

Perché CR7 è CR7, ma solo un giocatore era l’idolo delle partite di calcio tra ragazzi nella Palermo, e non solo, di fine anni ’70.

«U sa fari a Chimenti?» questa era la sfida classica tra ragazzini siciliani.

Fare la “bicicletta”, anni prima di vederla al cinema in “Fuga per la Vittoria” sublimata da un meraviglioso calciatore come Osvaldo Ardiles, è stato qualcosa che ha invogliato tutti noi di una certa età, in quei pomeriggi trascorsi in campetti sterrati, due pietre per porta, un pallone recuperato alla meglio.

E colui che in Italia ne detiene i diritti di questo gesto calcistico, dribbling secco nel quale in corsa la palla viene alzata, trattenuta tra i piedi a tenaglia e portata in avanti con il tacco, scavalcando così l’avversario con un pallonetto, antesignano di Ardiles pur non raggiungendone la fama, è sicuramente Vito Chimenti, onesto mestierante delle aree di rigore, dai dilettanti ai professionisti, di professione attaccante.

Appunto, noi ragazzini ci esercitavamo a fare la “bicicletta”, proprio come Chimenti, in partita.

Perché Vito il tozzo la bicicletta la fa in partita, non in un film come Ardiles (detto fra noi, sarebbe stato anche capacissimo, altro che!) e non è un gesto raro, anzi.

La serie incomincia in un amichevole contro la Juve (corsi e ricorsi, vedremo dopo), quando al numero tecnico segue una bordata che si infrange dietro al portierone Zoff (quanti potranno vantarsi di averlo come vittima preferita? E anche questo fa parte dei corsi e ricorsi che vedremo dopo) e non si riesce a capire se il boato del pubblico sia più per il gesto o per il goal e forse neppure Vito sa come davvero sia successo, proprio a lui.

Oppure come quella volta che la eseguì in Coppa Italia contro il Napoli.

«Non dimenticherò l’ esordio alla Favorita in coppa contro il Napoli. Feci la bicicletta a Catellani e segnai da fondo campo. Mi disse: Ma vaffanculo» parole e ricordi del bomber dalla faccia da operaio dell’Alfasud.

E’, invece, un calciatore a tutto tondo (non è una battuta, non sorridete), nonostante le apparenze.

E nonostante ciò che potrebbero raccontare gli album della Panini oggi.

IL BOMBER RANOCCHIO

«U sa fari a Chimenti?» non è un semplice guanto di sfida tra ragazzini.

E’ la dimostrazione che il calcio è magia, un mondo dove il celebre anfibio del “Il principe ranocchio” può trasformarsi, la domenica, in principe azzurro, sconfiggere il cattivo di turno che è il difensore marcatore avversario, arrivarlo a umiliarlo attraverso un giochino da circo.

Che dimostra però capacità tecnica e coraggio, e anche un po’ di incoscienza se hai il fisico come il buon Vito.

Che non è solo “bicirietta“, detto in siciliano, ma anche un buon professionista del gol.

E che avrà altri momenti di gloria, sissignore, perché il ranocchio, in area di rigore non ha bisogno di un bacio di una qualsiasi principessa.

Stai fresco ad aspettarla, te la devi vedere da solo perché la realtà è ben diversa.

Perché chi legge forse non sa che, in realtà, nella versione originale dei Grimm il ranocchio non viene baciato, ma scaraventato contro una parete: il bacio è un’invenzione successiva della Walt Disney, a fini commerciali.

E Vito, che Adone non è, capisce subito quale delle due versioni fa per lui.

E così, ogni santa domenica, da quando ha 19 anni, partendo dai campetti polverosi della serie C con il Matera, il buon Vito, non trovando una principessa a batterlo contro il muro per trasformarlo, fa da sé e carica da solo contro quei muri difensivi avversari fatti di muscoli, tempra, sudore, botte e calci, trasformandosi per ben 16 volte in principe.

Il che non può farlo non notare tanto che approda alla Lazio che si appresta, nel 1973-74, a conquistare il tricolore.

Che il buon Vito però non raggiunge, perché passa quasi subito al Lecco, di nuovo in C, facendo però in tempo ad ascriversi in una leggenda tutta biancoceleste capitolina: si narra, infatti, che in un allenamento avrebbe “osato”fare la “bicicletta” a Pino Wilson, capitano della Lazio, un tipino non per niente “dolce” e che non avrebbe preso goliardicamente la cosa allora.

Dopo un peregrinare sui campi polverosi della serie C, fra Salerno e Matera, ecco la svolta per Vito.

Arriva la chiamata del Palermo, serie B ma finalmente professionismo.

E Vito, che il fatto suo lo sa eccome, ecco subito diventare quello dellabicirietta”, gesto che da solo non basterebbe se il nostro ranocchio oramai principe non corroborasse le stagioni di permanenza a Palermo, diventando il cannoniere della squadra, 16 gol nel campionato 1977-’78, 13 in quello successivo.

E sopratutto cucendo per 83 minuti la coccarda della Coppa Italia sulla maglietta rosanero del Palermo, contro un avversario di tutto rispetto come la Juventus.

E’ la finale di Coppa Italia della stagione 1978-79.

Juventus, terza in campionato dietro al Milan della stella e il Perugia dei miracoli, e Palermo, sesto in serie B, si affrontano in finale unica sul terreno di gioco del San Paolo, a Napoli.

Apparentemente non ci sarebbe partita ma gli Dei del calcio amano spesso giocare con le emozioni dell’umano tifoso.

Ti languiscono l’uno e disperano l’altro, sovvertendo magari alla fine l’esito, trasformando la gioia in dolore, la paura in estasi con dispettose riscritture in corso d’opera.

E così può capitare che Vito Chimenti, raccogliendo una corta respinta del portierone Dino Zoff, insacchi al 1° minuto di sinistro la porta bianconera.

E può capitare che, dopo aver fatto ammattire la difesa bianconera tutto il primo tempo, Vito non si presenti praticamente in campo per il secondo tempo.

Qualcuno dirà per colpa di un calcione al ginocchio subito da Cabrini, il bell’Antonio fidanzato ideale di mezza Italia femminile, uno che non aveva bisogno di essere principe per essere nei desideri da bacio delle ragazze.

Altri sospetteranno altro.

Si disse che lo minacciarono di spaccargli le gambe se fosse rientrato, qualcuno che di Chimenti era il doppio in peso e altezza.

Ma questo fa parte delle leggende metropolitane.

Comunque sia il Palermo si ripresenta in campo senza il suo principe del gol, e il sogno di vincere la Coppa Italia (evento riuscito solo al Napoli come squadra della serie B) dura fino a 7 minuti dalla fine dell’incontro quando l’arcigno difensore Brio, entrato in campo al 5° del secondo tempo, incomincia ad essere il correttore usato dagli Dei del calcio sullo scherzo iniziale offerto ai tifosi rosanero.
Si va ai supplementari e mentre tutta la Palermo rosanera (e forse mezza Italia), affida le sue speranze antijuventine ai calci di rigore, ecco che la storia viene riscritta completamente, per la gioia bianconera e la disperazione dei picciotti siciliani, tramite i piedi di Franco Causio, leccese è vero, ma che prima di passare alla Juventus aveva mosso i primi passi in A (22 presenze e 3 reti) proprio con il Palermo.

Poi venitemi a dire che che gli Dei del calcio non siano quanto di più ferocemente burlesco esista!

Comunque uno come Vito, pur non aspirando alle grandi piazze come club, non può non provare il gusto di cimentarsi con la serie A.

Lo farà l’anno dopo con il Catanzaro, appena una rete in 26 presenze in una squadra che si salva solo perché vengono retrocesse d’ufficio Lazio, Milan e Pescara per il calcio scommesse.
Ci riprova il campionato seguente, 1980-81, con la maglia della Pistoiese e va decisamente meglio.

E’ il campionato che riapre agli stranieri e la squadra toscana, alla prima volta in A, gli affianca un certo Luis Silvio, brasileiro che da vita a leggende metropolitane: più che un calciatore si dice che sia stato, di volta in volta, un attore porno, un venditore di gelati allo stadio, un pizzaiolo e che finita la sua esperienza toscana abbia aperto un bar.

Quella Pistoiese è poca cosa, infarcita da vecchie glorie al tramonto (Lippi, Rognoni, Badiani, Bellugi e Frustalupi) e qualche giovanotto che non renderà per quanto promesso (Benedetti Paolo), nonostante ciò Vito Chimenti fa il suo: 9 reti in un campionato che vede la Pistoiese retrocedere da ultima in classifica, solo 16 punti e 19 reti segnate a fronte di 46 subite.

E se vi sembrano pochi 9 goal considerate che Vito li segna senza l’ausilio di rigori, mentre il capo cannoniere del campionato, quel Roberto Pruzzo al primo dei tre titoli come top scorer, ne segnerà il doppio, 18, ma con l’aiuto di 7 rigori!

Per i corsi e ricorsi del calcio, dei quali chi scrive è appassionato, segnalo che Vito Chimenti sembra avere un conto aperto con la Juventus e con Dino Zoff, anche se sono due sconfitte.

Segna contro i portierone bianconero entrambe la volte, andata e ritorno, e i suoi gol, uno al 5° del secondo tempo ( quando entra Brio in quella dannata finale) a Torino, e l’altro al 83° ( il minuto del gol del pareggio con Brio della Juventus in finale), sembrano voler essere una rivincita su un destino avverso, su quello che sarebbe potuto essere e non è stato.

O forse è solo l’ennesima beffa disegnata dal quei goliardici Dei del calcio, che di sentimento e passione fanno dileggio.

Vito ci riprova l’anno dopo, con l’Avellino del funambolo della bandierina Juary: saranno solo 3 reti in 26 partite.

Meglio così ricominciare, e finire, dove il ranocchio ha imparato come trasformarsi, sui campi polverosi della serie C -Taranto stavolta, dove ha il tempo di vincere un trofeo di capocannoniere, ma anche essere impelagato in una brutta storia di combine sportiva che gli costerà 5 anni di squalifica e la fine della carriera, nonostante la promozione B- a sbattersi da solo contro i muri avversari fatti di muscoli e sudore, botte e calci.

Finché un goal o una “bicirieta”non ti trasforma in principe.

«È questo che ci salva dalla noia/ Gli altri con il corpo in mostra e l’anima nascosta/ Noi con l’anima che ci fa muovere le ossa»
(Un’altra volta da rischiare – Ermal Meta)

Lascia una risposta

L'indirizzo email non verrà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

È possibile utilizzare questi tag ed attributi XHTML: <a href="" title=""> <abbr title=""> <acronym title=""> <b> <blockquote cite=""> <cite> <code> <del datetime=""> <em> <i> <q cite=""> <s> <strike> <strong>