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NOA E GLI ALTRI

«E’ da tanto che non mi sento davvero viva. Sopravvivo, respiro ma non vivo»
Nelle ultime parole di Noa Pothoven, lasciate ai social, c’è l’unica, essenziale, verità della sua tragica morte.
Non potranno cambiarla né eterei discorsi filosofici né dotte rivelazioni teologiche, tantomeno luride campagne elettorali.

Noa, a 11 anni, quando una bambina ancora va a letto con la sua bambola preferita, è stata violentata.
Non bastasse, a 14 anni, quando una ragazzina incomincia a sognare un futuro che forse non vedrà, ma non per questo le può essere negato di sognarlo, ha subito un’altra violenza sessuale.
Ferite profonde nel corpo prima, nell’animo, la violenza più devastante, dopo.
Traumi per lei insuperabili, che l’avevano portata a soffrire di una forma grave di depressione, di disturbi da stress post traumatico, fino all’anoressia e a svariati tentativi di suicidio.
 
Noa ha deciso, a 17 anni, di porre fine a quel suo strazio interno, a quel «respiro ma non vivo», decidendo di non alimentarsi.
Si è spenta, sicuramente sofferente, lentamente come una candela.
Nel buio dell’animo, priva di quella fioca ma pur sempre luce che una candela emana, aveva vissuto.
 
«Sollevato da inferno di dolore»
L’ultimo messaggio di DJ Fabo, altro caso eclatante, diverso sotto certi aspetti da quello di Noa.
Ma quanto sono simili i loro ultimi messaggi!
Strazianti treni di idee, parole, pur percorrenti binari diversi, nella malattia fisica o in quella psichica, per ritrovarsi poi nella stessa convinzione.
 
La vita, dal concepimento in poi, è imposta da terzi, mai completamente frutto di una propria libera scelta.
Dj Fabo non ha scelto la sua malattia, Noa non ha scelto le violenze subite.
Vita e morte sono due punti opposti che corrono per incontrarsi.
Da quando incomincia l’una si mette in moto l’altra.
A volta diventano causa ed effetto.
 
«La morte non è la più grande perdita nella vita. La più grande perdita è ciò che muore dentro di noi mentre stiamo vivendo.» (Norman Cousins)
Ecco, chi di noi può giudicare , non avendo vissuto le stesse esperienze di Dj Fabo, Eluana Englaro, Piergiorgio Welby o Noa, o ancor peggio condannare, le loro scelte?
 
Malattia o mente possono diventare carceri ancora più terribili di quelli costruiti con sbarre e mura, carcerieri e filo spinato.
Se c’è la mano di un Dio qualunque, nella vita di un uomo, a stabilirne la sacralità, a chi potremmo mai ascrivere l’orribile merito d’aver inventato un sì terribile carceriere e boia allo stesso tempo?
Ho visto dj Fabo, ho letto di Welby, ho cercato di mettermi nei panni di Eluana.
Tramite loro sono arrivato a comprendere perfettamente la volontà del ragazzino diciassettenne in Belgio che ha chiesto e ottenuto, malato di cancro terminale, l’eutanasia.
E riesco a capire il gesto di Noa e ad affrancarla dalla parola perdono.
 
Perché Noa, e come lei tanti altri, non hanno bisogno di perdono, poiché ciò sottintenderebbe una loro colpa.
Eutanasia, suicidio assistito, squilibrio mentale, chiamatelo come volete ma non giocate sulle parole, per condannarla o giustificarla.
Noa non lo merita e l’unica cosa che possiamo donarle è il rispetto della sua scelta.
 
«Non sempre la vita va conservata: il bene non consiste nel vivere, ma nel vivere bene.»( Lucio Anneo Seneca)

 

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