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Gli occhi di Gianna

La stanza è di una banalità assoluta. Di quelle che per una vita intera puoi guardare senza mai osservarle veramente, che non sapresti nemmeno descrivere perché, in verità, i tuoi occhi ci sono stati solo di passaggio. Un divano dal tessuto consunto, poltrone che hanno visto tempi migliori, un carrello dei liquori e un ripiano per la televisione. Foto di famiglia appese al muro, generazioni intere che guardano l’unica cosa non banale della stanza: il corpo della donna riverso a terra, occhi morti che contemplano la morte. La pelle bianca attraversata da una profonda ferita alla gola da cui è uscito il sangue assieme alla sua vita. La vita di Gianna, così si chiama, m’informa il maresciallo Ronzani. Il fluido vitale rosso scuro si è rappreso sul pavimento, formando una pozza dietro la testa e intingendo il castano dei capelli, quasi un‘aureola grottesca, un tentativo macabro per mettere in risalto quel viso giovane, quegli occhi verdi persi nel vuoto. Quegli occhi che ora fissano me, chino su di lei, e che hanno fissato per ultima l’immagine dell‘assassino. Se potessero parlare mi semplificherebbero la vita. Bella ragazza, mi scopro a pensare, la morte non ha potuto cancellare completamente la sua bellezza diafana. Le labbra mantengono ancora un piccolo bagliore rosa, che scomparirà nel grigio a mano a mano che la morte conquisterà ogni fibra del suo corpo. Quelle labbra che…
Dio Santo, no! Non può essere!
«Ciao» mi dicono le sue labbra.
Gianna, è lì distesa, è morta. Eppure… eppure mi ha parlato.
Non può essere, sto vaneggiando, sono fuori di testa. Maledizione, è colpa di quel maledetto oppio! Incomincio ad avere le visioni. Troppi anni nella scientifica, troppi cadaveri, vite spezzate, membra disfatte e corpi straziati. Alla lunga mi hanno portato il conto da pagare e ho cercato di sfuggire al mio creditore invisibile, nascosto prima nell’animo e poi nella mente, annebbiandomi nelle volute di fumo dell’oppio, la mia ultima debole corazza. O forse il mio cavallo di Troia dove il nemico, subdolo, si è nascosto per attaccarmi.
«Ciao» mi ripetono le labbra, quasi capissero il mio stupore e cercassero di convincermi.
«Ho poco tempo, prima che anche il mio ultimo segno lasci questo posto, perciò ascoltami.»
Resto quasi pietrificato, instupidito e, come un ebete, mi trovo a risponderle, non so se a parole o solo col pensiero. Ma che importa, non è grottesco comunque stare qui a rispondere a un corpo senza vita?
«Non può essere, tu sei morta, questo è solo un brutto scherzo!»
«E se anche fosse così, perché negarmi questo mio ultimo atto? Ascoltami!» le labbra paiono quasi supplicarmi ora.
«Tu DEVI scoprire il mio assassino. DEVI far in modo che paghi per ciò che ha fatto.»
Io continuo a essere inebetito, non so più dove sono e forse nemmeno chi sono.
Mi sento stupido e spaventato allo stesso tempo «Ma come posso… tu non puoi parlarmi… io…»
«No, tu puoi. Tu SAI. Ti prego… l’hai fatto molte altre volte… fammi giustizia.»
«Ma tu come puoi parlarmi, tu non sei viva, sei MORTA!»
«Lo so, e lo sai anche tu. Non stai impazzendo, almeno non ora… non del tutto.»
«Perché proprio io? Che cosa vuoi da me?»
Le labbra continuano, sempre più emaciate, ma ancora capaci di parlarmi. «Perché tu sai, solo tu puoi. Devi farlo per me.»
«Bastaaa! Dimmi cosa vuoi, cosa devo fare e vattene. Vattene dalla mia mente!»
«Sì andrò via dalla tua mente…ma solo quando tu mi avrai reso giustizia, quando avrai scoperto il colpevole. Ero un fiore, ora sono solo pasto per i vermi.»
«Ma come posso…»
«Guardati le mani, guardati le mani. Ora devo andare via, per sempre.»
Le sue labbra ora sono completamente grigie. E non si muovono più. Se mai realmente si siano mosse. Forse è frutto della mia fantasia o dell’oppio, o di entrambe le cose, causa ed effetto.
Mi guardo le mani, però, quasi infantilmente, cercando sulle dita la conferma che sia stato tutto un sogno, un incubo a occhi aperti.
Non è così invece, le mani mi rispondono che no, non è stata l’immaginazione. Fisica realtà, incredibilmente più vera di qualsiasi fantasia. Le mani. Ecco, le osservo. Le mie mani sono sporche di sangue. Non mio, suo.
E allora ricordo. Il ritorno a casa dalla fumeria d’oppio. Il litigio con Gianna, la mia compagna. La sua minaccia di abbandonarmi. E la rabbia, cupa e vorace divoratrice d’anima, che s’impossessa di me. Il punteruolo per il ghiaccio afferrato e usato per colpirla. Per fare in modo che Gianna appartenga per sempre a me. Per punirla. O per punirmi.
Solo ora sento nitidamente il maresciallo Ronzani che mi parla: «Tenente, tenente… cosa è successo qui? Chi è stato a fare questo alla signorina Gianna?»
Riesco a staccarmi da quegli occhi verdi, e mi giro verso di lui. Lo guardo ma, in realtà, non lo vedo. Lo guardo sapendo che ora gli occhi di quei ritratti sui muri sono rivolti verso me. Lui, il Ronzani, questo non può vederlo, né capirlo.
Alzo le mani, sporche di sangue. Il sangue di Gianna, l’unica cosa che mi è rimasta di lei.
Devo fare giustizia, lo so. È il mio mestiere, dopotutto.
Ora sono lucido. Non sono più l’oppio, le mie paure e i miei incubi a farmi agire, muovere, parlare.
Il Ronzani cerca di scuotermi:
«Tenente, mi risponda, dica qualcosa. Maledizione! Ha l’aria di chi ha visto il diavolo.
Continuo a guardarlo. Gli sorrido perché non sa quanto sia vero ciò che ha detto.
«È vero, ho visto il diavolo… e quel diavolo sono io, Maresciallo Ronzani. Sono stato io, ho ammazzato Gianna.
Ora so per certo che Gianna è andata via, dalla mia testa. Dalla mia pazzia

Un pensiero su “Gli occhi di Gianna”

  1. Cosa dire, oltre a quello che si è letto? Niente! Scritto egregiamente. Sciogliere un legame malato con la morte. Malato chi…colui che non riesce ad avere interamente ciò che vuole e per possederlo completamente lo elimina alla radice perché pensa così di poterlo avere tutto, sempre e solo per se .

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