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PENNA BIANCA

PENNA BIANCA

«Capelli grigi si qualcuno ne hai /È meglio avremo un po’ più tempo»
(Un nuovo amico – Riccardo Cocciante)

Tra la fine degli anni ’70 e l’inizio degli anni’80 gira in TV uno spot su un pettine colorante, il Color Comb, capace di dare una bella passata di scuro sulle capigliature più incanutite.

Una pubblicità destinata a diventare un must, come le famose scimmiette di mare (deliziose creature minuscole che si sarebbero ottenute versando delle bustine in acqua salata) pubblicizzate sulle pagine de L’intrepido e del Monello.

E se le scimmiette sono opinabili, meno lo è il testimonial che fornisce la chioma precocemente brizzolata allo spot del pettine colorante.

Parliamo di uno dei miglior goleador del calcio italiano, attaccante completo, quello che oggi verrebbe definito “attaccante moderno”, ovvero Roberto Bettega, conosciuto come “Bobby-gol” o, proprio per la precoce brizzolatura del capello, “Penna Bianca”.

Un tipino da 220 reti in più di 500 gare, tra Varese, Juventus e Nazionale, con una fugace apparizione a fine carriera tra i canadesi del Toronto Blizzard.

«Lo stile Juventus? È comportarsi come in famiglia, con educazione e un grande rispetto reciproco» (Roberto Bettega)

E di famiglia Roberto se ne intende. E la Juventus è nel suo destino.

Papà Raimondo lavora come carrozziere alla Fiat di quegli Agnelli che hanno legato da sempre il loro nome alla squadra bianconera, mamma Orsola fa la maestra.

Entrambi sono veneti ma Roberto nasce nella periferia operaia di Torino dove mani incallite dal lavoro sono medaglie e i giusti insegnamenti sono corollario di una vita di sacrifici ma onesta.

Che ti permette anche qualche piccolo sfizio, ogni tanto.

Come assistere a un derby della mole, Juventus vs Torino, e decidere, bambino, che quella maglia bianconera sarà la tua fede per sempre.

Così Roberto entra nelle giovanili bianconere, segna e fa segnare in tutta la trafila calcistica, su di lui si posano gli occhi di tutti gli osservatori, e non solo per il fisico che già lo contraddistingue dai suoi coetanei.

«Io dico che è nato attaccante. Se il fisico lo sorregge, può diventare una punta alla Charles» l’investitura è di Mario Pedrale, il suo primo allenatore ed estimatore.

E che non sia una boutade lo dimostra il fatto che il primo a portarselo in prima squadra e a dargli fiducia, nel 1969-70, è uno straordinario intenditore di calcio e talenti, un tizio con i cromosomi da fuoriclasse del calcio, uno del nord estremo d’Europa, la Svezia, ma scaramantico e ironico come solo un italiano del Sud può esserlo: Nils Liedholm.

Lo porta con se a Varese, in serie B, e Roberto, nemmeno ventenne, lo ringrazia con 13 reti nella prima stagione da professionista, con annessa promozione in serie A e titolo di capocannoniere condiviso con Bonfanti e Braida.

Logico quindi che il suo exploit non passi inosservato agli occhi di un altro mito bianconero, quel Giampiero Boniperti, chiamato a guidare da presidente il club bianconero.

La strategia è chiara: affiancare a giocatori di esperienza, come Salvadore e Haller, giovani virgulti rampanti come Capello, Causio, Spinosi e, per l’appunto, Roberto Bettega.

Che già alla prima giornata del campionato 1970-71 fa capire di non voler essere una comparsa.

Il primo gol in Serie A lo segna al Catania e alla fine del campionato saranno di nuovo 13, come al primo anno in serie B.

Il secondo anno sembra essere addirittura ancora più esaltante, nelle prime 14 partite segna 10 gol, tra i quali un memorabile goal di tacco a Cudicini del Milan.

« È il giorno più normale/ Ma io sto male, male» (Dammi solo un minuto – Pooh )

Il destino però è un temibile riscossore; può darti tanto, con mano benevole, e richiederti gli interessi, con ghigno beffardo.

Un domenica come le altre, un goal (stavolta alla Fiorentina)come tanti altri ai quali aveva abituato, una tosse che sembra come tante altre, frutto di freddo e gelo sui campi di allenamento e di gioco.

Invece è pleurite, Capodanno del 1972 in clinica e stagione calcistica finita, benché, con quei 10 goal segnati, Roberto possa definirsi Campione d’Italia a tutto tondo.

Forse da lì incominciano a brizzolarsi quei capelli che gli permetteranno, insieme all’acume tattico e la tecnica sopraffina, di farsi riconoscere subito in campo, di differenziarsi dagli altri come faceva da bambino con quei suoi 170 cm nelle giovanili bianconere.

Torna il campionato seguente per confermarsi Campione d’Italia da protagonista e nelle seguenti, tra tanti alti e pochissimi bassi (soprattutto caratteriali con gli allenatori), dimostra di essere un giocatore completo e non solo un vero cecchino d’area da rigore.

duetta con facilità con i suoi partner, fossero essi Anastasi, Boninsegna o Virdis, rifinisce l’azione da centrocampista e ripiega con umiltà.

Occhio alla penna!

Roberto, come detto, rimane comunque un magnifico cecchino d’area da goal.

Sarà un caso, ma il suo soprannome Penna Bianca è condiviso con uno che del cecchino ne fece una professione, quel Sergente Carlos Hathcock che diventerà una leggenda fra i marines.

Colto, signorile e intelligente fuori campo, sul rettangolo di gioco Roberto diventa come il Carlos mimetizzato nella vegetazione asiatica: entrambi, quando “sparano”, si ritirano in una “bolla” di totale concentrazione, dedizione e sacrificio dove c’è spazio solo per ciò che intercorre fra loro e il bersaglio, fosse un viet cong oppure la rete di una porta di calcio.

Con Giovanni Trapanazioni, allenatore emergente destinato a diventare storia bianconera, e con le sue 17 reti, scucirà lo scudetto (alla fine saranno 7 in totale vinti, più 2 Coppe Italia)dal petto dei cugini granata e conquisterà la Coppa Uffa (primo trofeo internazionale della Juventus , con Bobby-goal a segno nella finale di ritorno nella bolgia di Bilbao).

E, soprattutto, si prende l’azzurro della nazionale, quella che Bernardini è chiamato a rifondare dopo il disastro di Germania ’74.

Saranno 19 goal in appena 42 presenze, con goal memorabili come quello di testa a volo d’angelo contro gli albionici che ci regala il passaporto per il mondiale di Argentina, o come quello segnato, proprio in quella competizione, ai padroni di casa bianco celesti, futuri campioni del mondo.

Le poche presenze in azzurro hanno i confini della lunga malattia polmonare che ne ritardano il debutto e del tragico scontro (distacco del legamento collaterale-mediale del ginocchio sinistro) tra Penna Bianca e il portiere dell’Anderlecht Munaron che gli impedirà di rispondere presente al Mundial dell’82, dove il “Vecio” Bearzot lo aspetta, invano, sino all’ultimo.

«Bettega è l’uomo decisivo di questa nazionale […] Bettega non finisce mai di entusiasmarmi, fa prodezze che altri giocatori si sognano. »(Enzo Bearzot)

Forse è destino di Roberto Bettega sfiorare l’impresa assoluta, come lo è stato non diventare campione del mondo nel 1982 oppure per ben due volte Campione d’Europa con la Juventus, perdendo due finali di Coppa Campioni con Ajax (1972-73) e Amburgo (1982-83, la sua ultima partita in bianconero), entrambe perse dopo una manciata di minuti!

Terminerà la carriera di calciatore in Canada, tornerà alla Juventus come dirigente in uno dei periodi più′ drammatici per la società bianconera.

Noi degli anni ’60 ricorderemo Roberto Bettega per i suoi goal, le acrobazie, le emozioni legate a quella chioma brizzolata.

Il pettine colorante, alla pari delle scimmiette di mare, sarà solo un simpatico orpello di gioventù′

«La Juventus è stata una delle ragioni della mia vita. Amo questa squadra, questa società e questi colori» ( Roberto Bettega)

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