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17 MAGGIO 1980, LA MIA PRIMA VOLTA

LA MIA PRIMA VOLTA.
C’è sempre una prima volta.
La prima volta di un bacio, la prima volta in bici, la prima volta di un esame, la prima volta in campo sessuale.
Ognuna ti rimane dentro come un marchio.
Finisci, col tempo, di ricordarla tra il nostalgico e il faceto, ma è lì, fa parte di te.

Alcune prime volte sono più “prime” di altre perché giungono inaspettate, anche se a fine di un percorso.
E non rimangono estemporanee a se stesse, ma ti segnano, ti permettono di  aprire porte a mondi nuovi.
La mia prima volta, quel 17 maggio 1980, ebbe questo valore.

Tifo Roma dal 1974, precisamente da una uggiosa domenica che apriva il mese di dicembre.

Sono allo stadio, ad appena 7 anni, portato a vedere il derby Roma-Lazio da due improvvidi che nutrivano ben altre speranze per la mia passione calcistica.

Il primo improvvido è mio zio, apertamente laziale benché ischitano di nascita; l’altro è suo fratello mio padre, che condivide la passione per i colori delle maglie, destinata però al Napoli.

La domenica è uggiosa, la rallegra una saetta di De Sisti, ma io, per diventare tifoso della Roma, ci ho messo meno dei 36 minuti di Picchio.

Mi è bastato arrivare allo stadio, già sapendo di esser nato in quella città che si chiama Roma (mio padre, ischitano anch’esso, abitava da anni là per lavoro) e capire quale era la squadra che portava i colori della città, quel giallo e rosso che spezzavano l’aria uggiosa, di quella domenica, che ho sempre sentito mia, anche quando me ne sono dovuto allontanare.

Da allora, poche gioie e molti dolori, salvezze sofferte, una mediocrità soffusa alla quale parevi non potevi sfuggire benché quei colori fossero quelli dei legionari e imperatori che avevano conquistato mezzo mondo, mentre ora la massima aspirazione era un mezzo derby.

I risultati delle partite, per lo più′ deludenti e sofferti, chiesti a mio padre che deteneva l’assoluto monopolio domenicale dell’unica radiolina a casa.

Giusta e necessaria premessa, torniamo a quella prima volta, quel 17 maggio 1980.

«Questo scudetto consente ai tifosi romanisti di allontanare un uncubo e di uscire dalla prigionia di un sogno» Dino Viola questa frase la pronuncerà tre anni dopo, in occasione del campionato vinto dalla “sua” Roma, oramai diventata anche un pochino mia.

E’ sempre una domenica di maggio, l’8 per la precisione.

La Roma, a caccia di un sogno, gioca a Marassi contro il Genoa.

La partita finisce 1-1 e i ragazzi di Liedholm, la mia Roma, si laureano Campioni d’Italia con una giornata d’anticipo, 41 anni dopo il primo titolo e tre anni dopo la mia “prima volta”.

Perché, in verità, da quella prigionia del sogno mi sono liberato già in quel 18 maggio del 1980, in pieno periodo di calcio scommesse, di giocatori simboli (eroi delle tue partite di calcio fatte da due pietre per porta e un Supersantos per correrci dietro) Pablito Rossi e Bruno Giordano cancellati dal calcio e dall’album Panini, di squadre nobili, Lazio e Milan, retrocesse d’ufficio in serie cadetta.

La Roma torna a giocare , dopo 11 anni ( 1968-69 ), per portarsi a casa un trofeo, la Coppa Italia, in una partita secca giocata all’Olimpico. Avversario è il Torino, che in campionato ci ha tolto tra punti su 4, un campionato dove la Roma ha fatto un onesto 7° posto, che ancora una volta non le permette di accedere alle competizioni europee, ma tanto ci si è abituati.

Qualcosa però è cambiato, c’è un’aria nuova, in parte procurata dal cambio di presidenza, da Gaetano Anzalone a Dino Viola, con l’arrivo di Liedholm e un manipolo di giocatori esperti (Santarini, Turone, Benetti, l’ultimo Rocca) mixati a giovani di belle promesse (Brunetto Conti, Di Bartolomei, bomber Pruzzo, e l’esordiente in A Carletto Ancelotti).

L’ avversario quella sera è il Torino, una ottima squadra, abituata a frequentare i piani alti della classifica, piena di ottimi giocatori, i gemelli del gol Pulici e Graziani, Eraldo Pecci fosforo allo stato puro, Zaccarelli e Patrizio Sala nerbo e classe in mezzo al campo.

Entrambe hanno superato il loro girone da prime in classifica. Poi mentre la Roma eliminava a sorpresa il Milan campione d’Italia e in semifinale si trovava di fronte la sorpresa Ternana, il Torino superava la Lazio e nel derby la Juventus, entrambe sconfitte dai granata ai rigori dopo che le partite, di andata e ritorno, si erano concluse sulle 0-0.

La partita è tutt’altro che spettacolare e salvo un palo salvataggio sulla linea su tiro di Di Bartolomei e una uscita tempestiva del portiere giallorosso Tancredi sui piedi dell’attacco granata, c’è poco e niente da sottolineare.

La paura della Roma di perdere quanto fatto di buono, quasi a sorpresa, in quella competizione, la consapevolezza del Torino di essere forse alla fine di un ciclo per vincere qualcosa , creano una partita spartana, scevra da orpelli tecnici, che ha come naturale sbocco i rigori.

Già, quei rigori che hanno già due volte premiato il Torino, dopo identici risultati di 0-0 come quella sera. “Non c’è due senza tre” professa un vecchi detto.

E i proverbi devono pur servire a qualcosa, devono avere un fondo di verità o no?

L’inizio pare confermare il detto: Giovannelli Paolo (una carriera sfortunata, la sua) si fa parare il rigore come poi faranno anche De Nadai e Di Bartolomei (di solito infallibile, e lo sbaglierà anche l’anno dopo nell’altra finale, sempre contro il Torino).

Nel frattempo, a mantenere viva la speranza della “mia” Roma tra i gol di Mandorlini e Mariani, vi è Brunetto Conti, ma è una fiammella debole, quasi invisibile.

C’è una aria di rassegnazione, nonostante fischi impietosi arrivino dagli spalti colorati di giallorosso ad ogni tiratore granata che vada su quel dischetto.

Un dischetto che è come una macchia d’inchiostro del test di Rorschach: ognuno ci può vedere, e trovare, gloria o perdizione, paura e coraggio, vittoria o sconfitta.

Noi tifosi giallorossi lo impareremo a capire quella sera, e sarà una lezione a volte dolce, spesso dura.

Torniamo ai rigori.

Quella porta di sette metri, a undici metri dal dischetto, a volte ti sembra troppo piccola e il portiere troppo grande.

Anche se poi il portiere che la difende, nel caso specifico, Franco Tancredi, non è per niente un gigante, con i suoi appena 176 centimetri.

Ha, però, la calma dei grandi e i riflessi del gatto: para il rigore a Greco, la fiammella torna ad ardere!

Di Bartolomei, come detto sopra, però soffia su quella fiammella di nuovo, non è sera, dannazione!

Sul dischetto arriva Ciccio Graziani, bomber granata che quella sera ancora non sa che da lì a qualche anno vestirà i nostri colori e sarà artefice, nel bene e nel male, di una delle pagine più esaltanti e tragiche della Roma.

Ciccio va sul dischetto: portiere troppo grande, porta troppo piccola, vallo a sapere, intanto lui decide di sbatterla fuori.

Non ho mai amato tanto Ciccio Graziani quanto quella sera, tanto che, in simbiosi telepatica, lui lo avverte.

Al punto tale che, pur di vedermi felice, lo sbaglierà anche l’anno dopo, nella finale di Coppa Italia bis, e incapace di fermarsi ( o forse semplicemente ossequiente alla regola del “non c’è due senza tre”) lo sbaglierà anche in quella maledetta notte contro il Liverpool! Mortacci tua, Ciccio!

Santarini pareggia il conto, mentre Tancredi ipnotizza anche il geometra Pecci.

Sul dischetto va il giovanotto con le guance rosse e paffute, Carletto Ancelotti da Reggiolo, il ragazzo “scippato” all’Inter e proveniente dal Parma in C , dove giocava centravanti, mentre qui lo svedese napoletano Liedholm l’ha reimpostato come cursore sette polmoni e sagacia tattica di centrocampo.

Beata spensieratezza della gioventù, o consapevolezza di un futuro da gigante: vallo a capire, fatto sta che Carletto, in quella macchia d’inchiostro di Rorschach che è il dischetto, ci vede la gloria.

E segna! Per la prima volta la Roma è in vantaggio nella lotteria dei rigori!

Ora tocca a Franco Tancredi, il nostro gigante di 176 centimetri, portarci in paradiso o prolungare il purgatorio.

Il suo avversario è Renato Zaccarelli, eclettico centrocampista granata, classe e tempra da vendere.

Pronti, partenza, via e il gigante piccolo Tancredi si trasforma in gatto, senza stivali ma con i guantoni, e para il rigore!

La Coppa italia è della Roma!

E’ di Dino Viola, al suo primo anno “vero” da Presidente , di Liedholm e dello sfortunato Francesco Rocca, di Maurizio “Ramon” Turone e del “vecio” Sergio Santarini. E di Brunetto Conti e del bambino Carletto Ancelotti che lo segnato quel benedetto rigore, è anche di Di Bartolomei, Giovannelli e De Nadai che lo hanno sbagliato quel maledetto calcio di rigore.

Ed è anche mia, la mia prima volta, la prima volta che assoporo, da tifoso, il dolce gusto della vittoria di qualcosa d’importante che non sia il derby!

Ecco, quella prima volta, “Na sera e’ maggio” come cantavano Mario Abbate, Roberto Murolo, Claudio Villa o Sergio Bruni, è quella che mi libera dalla prigionia di un sogno prima ancora di quel pomeriggio del 1983.

E’ la prima volta foriera di altre vittorie, altre 4 Coppe Italia, un Campionato, che ti permetteranno di digerire anche tragiche sconfitte come una finale di Coppa Campioni e una di Coppa Uefa, oppure uno scudetto gettato alle ortiche con il Lecce, per rimanere solo all’epopea Viola.

Perché da quella sera, da quella prima volta, io incomincio a sognare in grande: passo da essere semplicemente orgoglioso di essere tifoso giallorosso a essere tifoso giallorosso veramente felice.

Perciò sarà difficile dimenticarla quella sera di maggio 1980, la mia prima volta!

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